LE SEPOLTE VIVEUn’istantanea sulla condizione femminile nei monasteri del XVI e XVII secolo, quella che l’autrice Sara Rullo offre al pubblico. Leggendo il suo libro Le sepolte vive. Il tema della monacazione forzata nella letteratura dell’Ottocento, è possibile ripercorrere la storia italiana in un’età storica precisa che ha segnato il destino di centinaia di donne. La monacazione forzata, lo dice la medesima espressione, è stata una prassi di prigionia, una violenza psicologica e fisica sulla donna, praticata da una nazione storicamente cattolica, ma con grandi interessi economici tra la Chiesa e le grandi famiglie italiane, attraverso lo sfruttamento di precise pedine umane nel grande scacchiere delle alleanze: le donne appunto. All’interno di un contesto storico esteso, la Rullo dunque presenta un’interessante fermo immagine di una situazione che aveva preso una piega sinistra sulla condizione delle giovani costrette ad un’immaginaria vocazione, poiché fuori dal patrimonio famigliare, esclusiva eredità del figlio maschio.

Le sepolte vive è un libro di straordinaria importanza sulla condizione della donna all’interno dei conventi italiani tra XVI e XVII. Perché hai deciso di scrivere proprio di questo status femminile?

Il problema della monacazione forzata mi aveva colpita sin dai tempi del liceo quando, studiando i Promessi Sposi, mi ero appassionata alla tormentata vicenda della Monaca di Monza. Continuando i miei studi ho ritrovato lo stesso tema, trattato in modo ancor più drammatico, in altre famose opere (per esempio Storia di una Capinera di Verga), da qui l’idea di attuare un confronto tra le varie protagoniste per la mia tesi di laurea;  il mio intento era quello di analizzare le reazione di donne così diverse dal punto di vista caratteriale ma unite dal medesimo destino. In seguito mi sono resa conto di quanto questo topos, per me così affascinante, fosse stato poco trattato dal punto di vista letterario, ho deciso allora di andare più in profondità spinta anche dall’appoggio del mio relatore, il prof. Ivan Pupo, che ha creduto nella mia idea. La monacazione forzata infatti  è un evento storico poco considerato nella storia femminile ma, al pari della caccia alle streghe e delle tante sventure che da sempre hanno interessato le donne, dovrebbe avere una maggiore considerazione nel panorama storico e letterario poiché ha mietuto un numero considerevole di vittime portandole alla perdita di se stesse, alla follia e in alcuni casi addirittura alla morte.

Le regole che vigevano nei conventi erano stabilite dal Concilio di Trento composto da soli uomini. Dunque si parlerebbe di legge patriarcale e non divina. Ma le regole stabilite per dare credibilità ai conventi di monache avevano lo stesso peso anche per i monasteri maschili?

Negli intenti probabilmente si, nella pratica invece la situazione era ben diversa. Dobbiamo considerare infatti il diverso contesto in cui erano inseriti uomini e donne, ma soprattutto la concezione generale del peccato. Nell’immaginario collettivo l’atto impuro commesso da una monaca non aveva lo stesso peso di quello commesso da un monaco, lo scandalo quindi non era tale da suscitare l’indignazione generale nei conventi maschili, anzi, a volte poteva essere addirittura oggetto di comicità. Lo stesso discorso purtroppo è valido ancora oggi, nella società odierna infatti determinati comportamenti sembrano essere normali per gli uomini e inammissibili per le donne.

Nel paragrafo “Peccati e punizioni” si evince l’esistenza di diversi gradi di peccato ai quali corrispondevano altrettanti gradi di punizione. Ciò che però colpisce è che all’interno del testo “Costituzioni per le canoniche regolari” che citi, si fa una netta distinzione tra due parti del corpo che dovevano essere punite, reni e spalle. Il testo si basa anche sulla concezione filosofica di Facoult secondo il quale i reni erano l’origine del piacere sessuale. Perché questa filosofia viene accettata anche nei monasteri femminili?

Per capire ciò bisogna adottare una visone della religione completamente diversa da quella che si ha oggi. Molto spesso infatti vi era una mescolanza di credenze, religiose e non, che andavano a confluire in una serie di comportamenti a volte ingiustificabili. Il confine tra sacro e profano quindi era molto sottile, tanto da generare una confusione nei vari ordini monastici che a volte presentavano delle “regole proprie”. In questa confusione generale il “problema” delle pulsioni sessuali era sicuramente uno dei più spinosi e proprio per questo si ricercavano delle risposte in filosofie che la Chiesa non poteva fornire.

Per un certo periodo novizie e educande, cioè le ragazze destinate al matrimonio, convivevano per essere istruite. Questo poteva scaturire invidie da parte delle novizie? Oppure in entrambi i casi i destini di queste donne possono considerarsi simili?

In alcuni casi si, per spiegarmi meglio richiamerò la Gertrude manzoniana. Soltanto una volta scoperto il diverso destino delle educande, destinate appunto al matrimonio, Gertrude si renderà conto di ciò a cui avrebbe rinunciato. Proprio da questo momento avrà inizio la sua ribellione. Da un altro punto di vista invece si può richiamare una certa simmetria tra i due percorsi, come la storia insegna infatti anche i matrimoni avvenivano in base a delle logiche economiche che costringevano le ragazze a sposarsi con dei perfetti sconosciuti. Al pari della monacazione quindi il matrimonio forzato si rivelava a volte un incubo avente le stesse conseguenze della monacazione (isteria, nevrosi, suicidio, ecc…). Paradossalmente vi erano casi in cui le donne per sfuggire al matrimonio decidevano di rinchiudersi in convento.

Nonostante l’ossessionata vigilanza sulle donne nei monasteri, vi erano però anche numerosi scandali. Questi erano una sorta di ribellione alla dittatura dei conventi e quindi giustificabili?

Certamente non rappresentava il modo migliore di ribellarsi, lasciarsi sopraffare dalla passione senza pensare alle conseguenze poteva aggravare la loro situazione; ma con quale coraggio si potrebbe biasimare questo comportamento? In un’esistenza cupa come quella monacale forse erano gli unici momenti  in cui queste sepolte  potevano ricordare a loro stesse di essere ancora vive…

Tra gli scandali, sicuramente i più frequenti erano i rapporti sessuali sia con uomini esterni al convento che con i propri confessori. Ecco, il confessore è una figura molto ambigua spesso accusato di violenze nei confronti delle donne, giustificato addirittura dallo stesso in quanto volontà di Dio. Ma questo riconoscimento di colpevolezza degli uomini avveniva sempre? E perché anche le monache venivano punite? Non erano forse loro le vittime?

Sono pochissimi i casi in cui la colpevolezza dei confessori è riconosciuta e affrontata in un vero e proprio processo, ciò era sicuramente determinato da molti fattori. Prima di tutto bisogna sottolineare lo strano rapporto che si veniva a creare tra monaca e confessore, quest’ultimo infatti era spesso l’unica figura maschile con la quale le donne potevano avere un contatto. Le lunghe conversazioni quindi portavano inevitabilmente ad una confidenza maggiore di quella permessa, basti pensare che vi erano monache che impiegavano ben due/tre ore al giorno per confessarsi come testimonia Enrichetta Caracciolo.Il rapporto che si creava però era di subalternità, le monache infatti erano completamente succubi  dei loro confessori che perciò potevano manipolarle a loro piacimento. La risposta alla tue domande allora diviene semplice, gli uomini non venivano puniti perché la chiesa era di fatto nelle mani della gerarchia maschile, essa deteneva tutti i poteri superiori e aveva quindi anche gli strumenti per potersi proteggere da determinate accuse. Le monache invece rappresentavano l’ultimo gradino di questa scala gerarchica e sarebbero state comunque giudicate dagli esponenti maschili.

Colpisce molto l’espressione spersonalizzazione dell’io, cioè l’abbandono del nome di battesimo per l’assunzione di quello monacale. Ma una sorta di spersonalizzazione cominciava già in tenera età? 

Nella maggior parte dei casi si, il destino monacale era infatti deciso dai genitori sin dalla nascita delle bambine. Come ho spiegato nel capitolo riguardante il problema delle doti, l’entrata in convento delle figlie femmine era “necessaria” a mantenere intatto il patrimonio familiare destinato al primogenito maschio. Le bambine quindi venivano allevate già con l’idea che la monacazione fosse il loro naturale destino, in questo modo si sarebbero evitati problemi  in età adulta. Questa vera e propria violenza psicologica è rappresentata benissimo da Manzoni nella descrizione dell’infanzia di Gertrude di cui riporto una breve citazione: Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si diedero in mano; […] Quando il principe, o la principessa o il principino, volevano lodar l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovasser modo d’esprimer bene la loro idea, se non con le parole: “ che madre badessa! ” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Era un’idea sottintesa e toccata incidentemente, in ogni discorso che riguardasse i suoi destini futuri. L’abbandono del nome di battesimo quindi era una tappa necessaria ad allontanare la ragazza dal mondo in cui era nata; oltre alla spersonalizzazione dell’io si può richiamare però un altro tema, quello della morte. Una volta entrata in monastero la donna infatti moriva al mondo, un parallelismo che si può benissimo notare nella cerimonia di monacazione che, oltre a rappresentare il matrimonio con Cristo, simboleggiava un vero e proprio funerale.

Suor Arcangela Tarabotti scrive una frase molto importante nel suo “Inferno monacale”: «sepolte prima di essere morte». Perché è considerata una protofemminista?

Proprio da questa frase ho deciso di estrapolare il titolo del mio saggio, le parole della Tarabotti infatti condensano a pieno il senso di queste violenze, ovvero la negazione della vita. Arcangela Tarabotti, al secolo Elena Cassandra, sarà una delle prime a sollevare il problema della monacazione forzata, anche lei infatti era stata costretta ad entrare in convento senza vocazione. Questa tragica esperienza però non farà arrendere la giovane donna che continuerà ad alimentare la sua mente attraverso la scrittura. I suoi libri rivestono un’importanza preziosissima,  in essi infatti vi è la descrizione di tutti i meccanismi che portavano alla reclusione e soprattutto vi è la denuncia dei veri colpevoli, ovvero  quelle stesse famiglie che ingannavano le figlie (da qui i titoli di alcune sue opere:  La tirannia paterna, La semplicità ingannata, L’inferno monacale), ma non solo, la sua denuncia si estenderà a tutta la società, complice silenziosa di questi sacrifici. Può essere considerata a pieno titolo quindi una protofemminista perché già nel ‘600, attraverso la sua scrittura propugnava la libertà di tutte le donne e del  diritto di scegliere il proprio destino.

Puoi parlarci di Enrichetta Caracciolo? Hai voluto dare voce ad una donna rivoluzionaria…

Tra le varie figure quella di Enrichetta è forse la più esemplare. Spinta dalla madre a rinchiudersi in convento senza vocazione sarà una delle poche a lottare per la propria indipendenza. Il suo carattere forte la spingerà infatti a ribellarsi ad un destino già scritto ed a chiedere lo scioglimento dei voti al Papa. Si può definire una rivoluzionaria perché non si lascerà sottomettere da un sistema precostituito come quello del convento ma, attraverso la cultura e lo studio, riuscirà a ribellarsi in modo intelligente. Una volta libera dal velo infatti continuò a lottare affinché la sua testimonianza risvegliasse le coscienze su ciò che accadeva all’interno dei chiostri. Nel 1864 infatti quest’esperienza si concretizzò nei  Misteri del chiostro napoletano in cui vi era l’analisi di  tutti i mali a cui la reclusione portava, uno dei più frequenti appunto la nevrosi. La sua figura però si può inserire in un contesto ancora più ampio, Enrichetta infatti sosterrà la lotta per l’Italia unita stringendo la mano al grande Garibaldi che avrebbe voluto addirittura nominarla ispettrice degli educandati.

Tra i casi estremi, oltre le relazioni con uomini e quelle omosessuali, vi erano anche quelli relativi alla follia e al suicidio. Dunque i conventi erano anche una sorta di manicomi che raccoglievano donne sane stremandole sino alla follia. Ma il suicidio era visto come una liberazione da quei mali?

Paradossalmente si, proprio in questo luogo sacro si consumavano molto spesso delle vere e proprie tragedie. Il suicidio era l’atto finale di un percorso psicologico estremo che avveniva quando la donna ormai non era più capace di ragionare lucidamente perché completamente spersonalizzata. In altri casi però questo gesto avveniva in donne che avevano mantenuto il controllo ma che non erano più disposte a condurre un’esistenza priva di ogni senso vitale. L’atto del suicidio quindi non è da considerarsi soltanto come un’azione di pura follia ma è da inserirsi in un contesto più ampio che andrebbe analizzato sotto molteplici punti di vista.

Prendo in prestito la domanda di Denis Diderot per rivolgerla a te. I conventi sono così essenziali alla costituzione di uno Stato?

Questa domanda è molto delicata e cercherò di esprimere il mio pensiero nel rispetto di chi è credente e nella consapevolezza dell’esistenza di altrettante monacazioni volontarie. Leggendo la riflessione di Diderot però non posso non trovarmi d’accordo in ogni singola parola, nel suo ragionamento infatti egli scrive: Dio che ha creato l’uomo così socievole approva forse che si rinchiuda? [..] Quei voti che contraddicono la tendenza generale della natura potranno mai essere osservati se non da poche creature, mal costituite, i cui germi della passione sono appassiti…? In queste domande secondo me si può racchiudere la contraddizione principale dello stato monacale, uno stato che priva l’essere umano di tutto ciò per cui è stato creato. Perché impedire a delle donne e a degli uomini (il discorso in questo caso vale per entrambi i sessi) di vivere a pieno la vita? Perché privarli della loro stessa natura? Gli istinti naturali infatti sono presenti in ognuno di noi e reprimerli non può che portare ad una degenerazione, come spesso purtroppo ha dato testimonianza la chiesa. Oggi naturalmente la situazione è diversa, non si è più in presenza di monacazioni forzate ma il discorso secondo me ha la stessa valenza. Alla fine del mio saggio ho infatti inserito un’appendice dal titolo La monacazione “volontaria”, in quest’ultima parte vi è l’analisi dei vari motivi che spingevano spesso le stesse donne a decidere di entrare in convento, tra i più frequenti il rifiuto della società e la paura di  affrontare il mondo reale. Insomma il discorso in questo caso si sposterebbe da un piano storico/letterario ad un piano sociologico/psicologico, chissà, potrebbe rappresentare magari lo spunto per una nuova ricerca!

Cristina Caminiti