Il negazionismo del genocidio in Palestina è un’offesa alla memoria dei morti e alla sofferenza dei vivi. Si presenta con la freddezza di chi parla di “operazioni militari legittime”, con la convinzione che “non esiste alcun genocidio” e con l’accusa velenosa secondo cui chi denuncia i massacri sarebbe “al soldo degli arabi”. Una strategia che serve a screditare, insinuare sospetti, ribaltare la colpa. Ma la realtà non si piega alla propaganda: basta guardare, basta ascoltare.

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Secondo dati raccolti sul campo e confermati da osservatori indipendenti, sono più di 65.000 i Palestinesi uccisi dall’inizio dell’assedio e oltre 150.000 i feriti, la maggior parte donne e bambini. Lo ha riportato The Guardian il 16 settembre 2025: https://www.theguardian.com/world/2025/sep/16/israel-committed-genocide-in-gaza-says-un-inquiry.

 

Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha parlato di “motivi ragionevoli per credere che Israele stia commettendo genocidio a Gaza”, individuando almeno quattro dei cinque atti previsti dalla Convenzione sul genocidio del 1948. La notizia è stata riportata da AP News: https://apnews.com/article/c9d40ab3714b46957c5716132f9eb2a6 e da Reuters: https://www.reuters.com/world/middle-east/un-inquiry-finds-top-israeli-officials-incited-genocide-gaza-2025-09-16.

 

Human Rights Watch ha definito la privazione sistematica di acqua, carburante e cure “un atto che può costituire genocidio”. Lo riporta Reuters, 19 dicembre 2024: https://www.reuters.com/world/middle-east/human-rights-watch-says-israels-deprivation-water-gaza-is-act-genocide-2024-12-19. L’organizzazione israeliana B’Tselem ha descritto la situazione come “un calcolo deliberato volto a rendere impossibile la vita quotidiana”: https://www.btselem.org/publications/202507_our_genocide.

 

Ma non servono soltanto i rapporti delle organizzazioni internazionali per capire la portata della tragedia: basta guardare. Canali come Eye on Palestine (https://www.instagram.com/eye.on.palestine) mostrano ogni giorno immagini che inchiodano la coscienza: bambini ridotti pelle e ossa dalla fame, madri che stringono neonati senza vita, file di persone che attendono disperatamente un pezzo di pane o una tanica d’acqua. E ancora, i reportage di Palestine Chronicle (https://www.palestinechronicle.com) e di Mondoweiss (https://mondoweiss.net) amplificano voci che altrimenti resterebbero soffocate, portando al mondo storie che i negazionisti fingono di non vedere.

 

Le accuse di essere “pagati dagli arabi” a chi denuncia il genocidio riecheggiano vecchi schemi di delegittimazione: non si attacca ciò che viene detto, ma si tenta di sporcare chi lo dice. È la stessa logica che in passato ha negato l’Olocausto o il genocidio in Rwanda: chi mostrava le prove veniva accusato di faziosità, di complotto, di essere strumento del nemico. Ma in Palestina il dolore non ha bisogno di mediatori: è inciso nelle macerie, negli ospedali distrutti, nei corpi senza sepoltura.

 

Negare il genocidio significa infliggere una seconda violenza. Significa dire a chi sopravvive alla fame e ai bombardamenti che la sua testimonianza non conta, che la sua sofferenza non esiste. Significa voltarsi dall’altra parte mentre i bambini muoiono per mancanza di latte, mentre intere famiglie vengono cancellate da una sola esplosione. La questione dell’“intento genocida” resta il nodo giuridico più discusso nei tribunali internazionali, ma le strade di Gaza lo gridano con una chiarezza che nessuna corte potrà mai ignorare.

 

Il negazionismo del genocidio non è una semplice opinione: è un atto politico, una forma di complicità. È il tentativo di seppellire la verità sotto strati di propaganda e sospetto. Ma i dati, i rapporti, le immagini e le voci dei sopravvissuti continuano a emergere, più forti delle menzogne. E ricordano al mondo che il genocidio non si discute: si riconosce, si nomina, si ferma.

 

Deborah Serratore

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