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ACQUA

di

Rossella Scherl

 

 

Qualcosa mi distrasse. Guardai fuori. Il cielo terso, i vetri asciutti. Eppure, quel rumore da improvviso scroscio di pioggia. Dalle 7,00 ero concentrato in cerca di un cavillo tra gli articoli del codice di procedura penale. Lasciai il volume aperto sulla scrivania, accesi una sigaretta e mi avvicinai alla finestra. I miei occhi avevano bisogno d’aria. Mi affacciai più per questo, che spinto dalla curiosità di scoprire la provenienza di quel rumore che non aveva perso forza.

Nella strada sottostante, ad una cinquantina di metri, un gruppo di ragazzini armeggiava intorno alla colonnina per l’idrante, dirigendo il getto dell’acqua,  che ne fuoriusciva violento, contro passanti ed auto. Un bambino, avrà avuto cinque sei anni, fermo al centro del marciapiedi, bagnato fracido. Sembrava spaventato. Non ne vedevo il viso. Dalle ginocchia appena piegate, le spalle chiuse,  avrei scommesso che fosse sul punto di piangere. Forse lo stava già facendo. Quattro teppistelli… no cinque. Ce n’era uno che si teneva in disparte, con le mani sui fianchi, sembrava controllasse che tutto andasse come doveva. Espressione da capo. Era il più alto. Magro com’era, il tempo che uno degli altri si fosse allungato quel tanto da tenergli testa, alla prima litigata, sarebbe andato al tappeto.

Squillò il telefono. D’istinto feci un passo verso la scrivania. Aspettavo una chiamata intorno alle 12,00. Era troppo presto. Non risposi.

        Tornai alla finestra. Il gioco dei ragazzi continuava senza che nessuno intervenisse. Una guerra rinfrescante, in una calda mattina di luglio. Rinfrescante e violenta. Come il tentativo di respingere minacce che avanzano. Come affrontare a testa bassa una carica della polizia, con le camicie in mano a fare da bandiera, mostrando il petto all’acqua sferzante degli idranti, mimando di insaponarsi i capelli, le ascelle, sputando saliva, amara, come la consapevolezza di doversi fermare, già sconfitti prima dello scontro finale. Già sconfitti prima che un manganello arrivi sulle cosce, sulla schiena, sulla testa e il sangue diluito faccia   meno  paura,  ma non abbastanza per non arretrare e scappare insieme. Come da ragazzini. Amici inseparabili. Insieme, come quella volta che ci si trovò con gli altri, con cui si faceva gruppo stretto, intorno a quel getto violento che non abbiamo provocato. Dovremmo allontanarci, scappare, ma ridiamo come matti, da perdere le forze, per quella doccia piovuta da terra sulle nostre magliette madide di sudore, e arriva il poliziotto di quartiere con il fischietto e i bottoni d’oro sull’uniforme nera. Ci grida di smetterla, piccoli teppisti delinquenti. Totò, ti ho riconosciuto. Quando lo saprà tuo padre…

        Fu come un colpo di fucile sparato nel mucchio da un cecchino che sa come andare a segno.  Sparimmo tra i vicoli con il cuore in gola. Brutto bastardo di uno sbirro, prima o poi te li rubo quei bottoni per prenderli a calci, con l’unghia, al posto dei tappi di gazzosa. Sapevi, pezzo di merda. Tu, e quanti altri?

        Totò, che arrivava sempre coperto di medaglie nere che nel giro di una settimana diventavano verdi, giallastre fino a sparire mentre altre erano già pronte per la trafila.

        Totò cazzone, gli gridavamo, ascoltando il racconto dell’ultima inciampata sulle scale che gli aveva sbucciato niente e striato le cosce come le righe della tenda parasole del bar dello Storto. Nessuno ci credeva. Fingevamo di farlo e discorso chiuso. Anche quando non c’era, non una parola su quella bestia d’uomo che aveva per padre. Quando Totò non si vedeva in giro, si passava a gruppetti davanti casa sua sperando di beccarlo almeno alla finestra. Che si bussasse per chiedere sue notizie, neanche a pensarci. Senza bisogno di confessarcelo, la sola idea che potesse essere lui, quella merda d’uomo, ad aprirci la porta, ci terrorizzava. Senza bisogno di confessarcelo, desideravamo con tutte le nostre forze che morisse e sparisse per sempre dalla vita di Totò e dalle nostre. Ci pensò la cirrosi  a lapidarlo. Un paio d’anni dopo che quello stronzo di poliziotto… Gliela diagnosticarono in ospedale. C’era finito per un colpo alla testa, qualche mese prima di morire. Era stata la moglie a chiamare l’ambulanza. Si parlò di caduta accidentale. Per lui era la prima volta, ma in quella famiglia, oltre a Totò, pure alla madre e alle sorelle  capitava continuamente e quando lo rimandarono a casa, Totò sparì dalla circolazione per diversi giorni.

        Tornai alla scrivania tra carte e codici. I ragazzi per strada berciavano. Solo quando squillò di nuovo il telefono, mi accorsi che non si sentiva altro che rumore di traffico.

Pronto? Luigi sono appena uscito dal Tribunale per i minori, l’istanza è stata accolta, e il giudice ha già fissato l’udienza. Tra quanto? Due settimane… Cazzo avvocato, complimenti, in galera per dieci anni lo mandiamo. È sempre poco… Hai ragione Totò… è sempre poco.

 

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